Seconda Predica di Avvento 2017

«Tutto è stato fatto per mezzo di lui e in vista di lui» (Colossesi 1,16)

  1. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., Predicatore della Casa Pontificia

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“CRISTO È LO STESSO, IERI, OGGI E SEMPRE” (Ebrei 13, 8)

L’onnipresenza di Cristo nel tempo

  1. Cristo e il tempo

Dopo aver meditato, la volta scorsa, sul posto che la persona di Cristo occupa nel cosmo, vogliamo dedicare questa seconda riflessione al posto che Cristo occupa nella storia umana; dopo la sua presenza nello spazio, quella nel tempo.

Nella Messa della Notte di Natale nella Basilica di San Pietro, è stato ripristinato, dopo il Concilio, l’antico canto della Kalenda, tratto dal Martirologio Romano. In esso la nascita di Gesù Cristo è posta al termine di una serie di date che la situano nel corso del tempo. Eccone alcune frasi:

“Trascorsi molti secoli dalla creazione del mondo […];
tredici secoli dopo l’uscita di Israele dall’Egitto sotto la guida di Mosè;
circa mille anni dopo l’unzione di Davide quale re di Israele […];
all’epoca della centonovantaquattresima Olimpiade;
nell’anno 752 dalla fondazione di Roma;
nel quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Ottaviano Augusto;
quando in tutto il mondo regnava la pace, Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, volendo santificare il mondo con la sua venuta, essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce in Betlemme di Giuda dalla Vergine Maria, fatto uomo”.

Questo modo relativo di calcolare il tempo, partendo da un principio e in riferimento a diversi avvenimenti, era destinato a cambiare radicalmente con la venuta di Cristo, anche se ciò non avvenne subito e tutto in una volta. Oscar Cullmann, nel noto studio “Cristo e il tempo”, ha spiegato nel modo più chiaro in che è consistito questo cambiamento nel modo umano di calcolare il tempo.

Noi non partiamo più da un punto iniziale (la creazione del mondo, l’uscita dall’Egitto, la fondazione di Roma ecc.), seguendo poi una numerazione che progredisce in avanti verso un futuro illimitato. Partiamo ormai da un punto centrale, la nascita di Cristo, e calcoliamo il tempo che la precede in modo decrescente verso di essa: cinque secoli, quattro secoli, un secolo avanti Cristo ….,  e in modo crescente il tempo che la segue: un secolo, due secoli o due millenni dopo Cristo. Fra pochi giorni celebreremo il 2017° anniversario di quell’evento.

Questa maniera di calcolare il tempo, dicevo, non si è imposta subito e allo stesso modo. Con Dionigi il Piccolo, nel 525, si cominciò a calcolare gli anni a partire dalla nascita di Cristo, anziché dalla fondazione di Roma; ma solo a partire dal secolo XVII (sembra con il teologo Denis Pétau, detto Petavius) invalse l’uso di contare anche il tempo prima di Cristo secondo gli anni che precedettero la sua venuta. Si è arrivati così all’uso generale, espresso dalle formule: ante Christum natum (abbreviato a.C.) e post Christum natum (abbreviato p. C ); avanti Cristo, dopo Cristo.

Da qualche tempo sta diffondendosi il costume, specie nel mondo anglosassone e nei rapporti internazionali, di evitare questa dicitura, non gradita, per motivi comprensibili, a persone appartenenti ad altre religioni o di nessuna religione. Anziché, perciò, parlare di “era cristiana”, o di “anno del Signore”, si preferisce parlare di “era corrente”, o “era comune” (“Common era”). Alla dicitura “avanti Cristo” (a. C.) si sostituisce “avanti l’era comune” (in inglese BCE) e a quella “dopo Cristo” (d.C.) la dicitura “era Comune” (in inglese CE). Cambia la dicitura, ma non la sostanza della cosa; il calcolo degli anni e del tempo resta lo stesso.

Oscar Cullmann ha chiarito in che consiste la novità della nuova cronologia, introdotta dal cristianesimo. Il tempo non procede per cicli che si ripetono, come era nel pensiero filosofico dei greci e, tra i moderni, in Nietzsche, ma avanza linearmente, partendo da un punto imprecisato (e in realtà non databile) che è la creazione del mondo, verso un punto ugualmente imprecisato e imprevedibile che è la parousia. Cristo è il centro della linea, colui al quale tutto tende prima di lui e dal quale tutto dipende dopo di lui[1]. Definendosi “l’Alfa e l’Omega” della storia (Ap 21, 6), il Risorto assicura che non solo egli riunisce in sé il principio alla fine, ma è lui stesso quel principio imprecisato e quella fine imprevedibile, l’autore della creazione e della consumazione.

Sul momento, la posizione di Cullmann incontrò una forte reazione ostile da parte dei rappresentanti della teologia dialettica, dominante in quel tempo: Barth, Bultmann e i loro discepoli. Quest’ultima tendeva a de-storicizzare il Kerygma, riducendolo a un esistenzialistico “appello alla decisione”. Mostrava, di conseguenza, un marcato disinteresse per il “Gesù della storia” in favore del cosiddetto “Cristo della fede”. Il rinato interesse per la “storia della salvezza” nella teologia del dopo Concilio e il ritorno di fiamma di interesse per il Gesù della storia nell’esegesi (la cosiddetta “nuova ricerca storica su Gesù”[2]), hanno dato ragione alla intuizione di Cullmann.

Una conquista della teologia dialettica è rimasta intatta: Dio è totalmente altro rispetto al mondo, alla storia e al tempo: tra le due realtà vi è una “infinita e irriducibile differenza qualitativa”. Quando si tratta di Cristo, tuttavia, a questa certezza dell’infinita differenza, va sempre affiancata l’affermazione dell’altrettanto “infinita” somiglianza. È il nucleo stesso della definizione di Calcedonia, espresso con i due avverbi “inconfuse, indivise”, senza confusione e senza separazione. Di Cristo si deve dire, in modo eminente, che è “nel mondo”, ma non è “del mondo”; è nella storia e nel tempo, ma trascende la storia e il tempo.

  1. Cristo: figura, evento e sacramento

Cerchiamo adesso di dare un contenuto più preciso all’affermazione dell’onnipresenza di Cristo nella storia e nel tempo. Essa non è una presenza astratta e uniforme. Si attua in modo differenziato nelle diverse fasi della storia della salvezza. Cristo “è lo stesso, ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 8), ma non con la stessa modalità. Egli è presente nell’Antico Testamento come figura, è presente nel Nuovo Testamento come evento ed è presente nel tempo della Chiesa come sacramento. La figura annuncia, anticipa e prepara l’evento, mentre il sacramento lo celebra, lo rende presente, lo attualizza e, in certo senso, lo prolunga. In questo senso la liturgia ci fa dire a Natale: “Hodie Christus natus est, hodie Salvator apparuit”: “Oggi Cristo è nato, oggi è apparso il Salvatore”.

È una affermazione costante di san Paolo che, nell’Antico Testamento, tutto – eventi e personaggi – fa riferimento a Cristo; è un “tipo”, una profezia, o una “allegoria” di lui. Ma la convinzione risale al Gesù dei Vangeli che applica a se tante parole e fatti dell’Antico Testamento. Secondo Luca, il Risorto in viaggio con due discepoli verso Emmaus, “cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24, 27). La tradizione cristiana ha coniato delle formule brevi per esprimere questa verità di fede, dicendo, per esempio, che la Legge era “gravida” di Cristo; la liturgia della Chiesa vive, praticamente, di questa convinzione e legge in riferimento a Cristo ogni pagina dell’Antico Testamento.

Dire, poi, che Cristo è presente nel Nuovo Testamento come “evento”, significa affermare il carattere unico e irripetibile degli eventi storici riguardanti la persona di Gesù e in particolare il suo mistero pasquale di morte e risurrezione. L’evento è ciò che avviene semel, ”una volta per sempre” (Eb  9, 26-28) e come tale non è ripetibile, essendo racchiuso nello spazio e nel tempo.

Dire infine che Cristo è presente nella Chiesa come “sacramento”, significa affermare che la salvezza da lui attuata diventa operante nella storia attraverso i segni da lui istituiti. La parola “sacramento” va qui intesa nel senso più ampio che include i sette sacramenti, ma anche la parola di Dio, e anzi l’intera Chiesa come “sacramento universale di salvezza”. Grazie ai sacramenti, il semel diventa quotiescunque, l’“una sola volta”, diventa “ogni volta”, come afferma Paolo della cena del Signore: “Ogni volta (quotiescunque) che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11, 26).

Quando si parla della presenza di Cristo nella storia della salvezza come figura, come evento e come sacramento, bisogna evitare l’errore di Gioacchino da Fiore (o almeno a lui attribuito): quello cioè di dividere l’intera storia umana in tre epoche: l’epoca del Padre che sarebbe l’Antico Testamento, l’era del Figlio che sarebbe il Nuovo Testamento e l’era dello Spirito Santo che sarebbe il tempo della Chiesa.

Questo non sarebbe soltanto contrario alla dottrina della Trinità (che agisce sempre congiuntamente nelle opere ad extra), ma anche alla dottrina cristologica. L’evento Cristo non è uno dei tre momenti o delle tre fasi della storia, ma il centro di essi, ciò a cui tende il tempo prima di lui e da qui prende senso il tempo dopo di lui. È la cerniera che li unisce e li distingue. È proprio questa la verità espressa dalla nuova cronologia che divide il tempo in “prima di Cristo” e “dopo Cristo”.

  1. L’incontro che cambia la vita

Adesso, come al solito, passiamo dal macrocosmo al microcosmo, dalla storia universale alla storia personale, cioè dalla teologia alla vita. La costatazione che, grazie all’uso universale di datare gli eventi, Cristo è riconosciuto come il baricentro del tempo e della storia non deve essere per un cristiano un motivo di orgoglio e di trionfalismo, ma l’occasione per un austero esame di coscienza.

La domanda da cui partire è semplice: Cristo è anche il centro della mia vita, della mia piccola storia personale? Del mio tempo? Vi occupa un posto centrale solo in teoria, o anche di fatto? È una verità solo pensata, o anche vissuta?

Nella vita della maggioranza delle persone c’è un evento che divide la vita in due parti, crea un prima e un poi. Per gli sposati, questo, in genere, è il matrimonio ed essi dividono la propria vita così: “prima di sposarmi” e “dopo sposato”; per i sacerdoti è l’ordinazione sacerdotale: prima dell’ordinazione, dopo l’ordinazione; per i religiosi, è la professione religiosa.

Anche san Paolo divideva la propria vita in due parti, ma lo spartiacque non era né il matrimonio né l’ordinazione. “Io ero, io ero…”, scrive ai Filippesi – e segue la lista di tutti i suoi titoli e garanzie di santità (circonciso, ebreo, osservante della legge, irreprensibile); ma d’improvviso tutto questo, da guadagno divenne per lui perdita, da motivo di vanto spazzatura. Perché? “A motivo, dice, del sublime vantaggio di conoscere Cristo Gesù come mio Signore” (Fil 3, 5ss). L’incontro a fuoco con Cristo ha creato nella vita dell’Apostolo una specie di “avanti Cristo” e “dopo Cristo” personale.

Per noi questo spartiacque è spesso più difficile da individuare; tutto è fluido, diluito nel tempo e scandito dai cosiddetti “riti di passaggio”: battesimo, cresima, matrimonio, ordinazione sacerdotale o professione religiosa. Come fare per sperimentare anche noi qualcosa di quello che sperimentarono san Paolo e tanti altri dopo di lui?

Per nostra fortuna, un evento del genere non è frutto esclusivo dei sacramenti; anzi i sacramenti possono benissimo non rappresentare alcun vero “passaggio”, dal punto di vista esistenziale. L’incontro personale con Cristo è un evento che può aver luogo in qualsiasi momento della vita. A proposito di esso, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium scrive:

“Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso (!) il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore” (EG, 3).

In una omelia pasquale anonima del IV secolo, precisamente dell’anno 387, il vescovo fa una affermazione sorprendentemente moderna, quasi esistenzialistica ante litteram. Dice:

“Per ogni uomo, il principio della vita è quello, a partire dal quale Cristo è stato immolato per lui. Ma Cristo è immolato per lui nel momento in cui egli riconosce la grazia e diventa cosciente della vita procuratagli da quell’immolazione”[3].

Avvicinandoci al Natale, noi possiamo applicare alla nascita di Cristo quello che l’autore dice della sua morte.  “Per ogni uomo il principio della vita è quello, a partire dal quale Cristo è nato per lui. Ma Cristo nasce per lui nel momento in cui egli riconosce la grazia e diventa cosciente della vita procuratagli da quella nascita”.

È un pensiero che ha attraversato, si può dire, tutta la storia della spiritualità cristiana, a cominciare da Origene, passando per sant’Agostino, san Bernardo, Lutero ed altri: “Che giova a me – esso dice – che Cristo sia nato una volta da Maria a Betlemme, se non nasce anche per fede nella mia anima?”[4] In questo senso, ogni Natale, anche quello di quest’anno, potrebbe essere il primo vero Natale della nostra vita.

Un filosofo ateo ha descritto, in una pagina famosa, il momento in cui uno scopre l’esistenza, delle cose; scopre cioè che esse esistono nella realtà e non solo nel pensiero.

“Ero – scrive – al giardino pubblico. La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse e, con esse, il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie […]. E poi ho avuto questo lampo di illuminazione. Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire “esistere”. Ero come gli altri, come quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili. Dicevo come loro: “Il mare è verde; quel punto bianco lassù è un gabbiano”, ma non sentivo che ciò esisteva, che il gabbiano era un “gabbiano-esistente”; di solito l’esistenza si nasconde. È lì, attorno a noi, non si possono dire due parole senza parlare di essa e, infine, non la si tocca […]. E poi, ecco, d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza si era improvvisamente svelata”[5].

Qualcosa di analogo avviene quando uno che ha pronunciato infinite volte il nome di Gesù, che conosce quasi tutto su di lui, che ha celebrato innumerevoli Messe, un giorno scopre che Gesù non è solo una memoria del passato, per quanto liturgica e sacramentale, non è un insieme di dottrine, di dogmi, un oggetto di studio; non è, in somma, un personaggio, ma una persona vivente ed esistente, anche se invisibile agli occhi del corpo. Ecco, Cristo è nato in lui; è avvenuto un salto di qualità nel suo rapporto con Cristo.

È quello che hanno sperimentato i grandi convertiti, nel momento in cui, per un incontro, una parola, una illuminazione dall’alto, improvvisamente si è accesa in loro una grande luce, ne hanno avuto, anche loro, “il fiato mozzo” e hanno esclamato: “Ma allora Dio c’è! È tutto vero!”

Successe, per esempio, a Paul Claudel che il giorno di Natale del 1886 entrò per curiosità nella cattedrale di Notre Dame a Parigi e, ascoltando il canto del Magnificat, ebbe “il sentimento lacerante dell’eterna infanzia di Dio” ed esclamò: “Sì, è vero, è proprio vero! Dio esiste; è qui; è qualcuno, è un essere personale come me! Mi ama, mi chiama”. In quell’istante, scrisse più tardi, “sentii entrare in me tutta la fede della Chiesa”[6].

Facciamo però un passo avanti. Cristo, abbiamo visto, non è solo il centro, o il baricentro, della storia umana, colui che, con la sua venuta, crea un prima e un dopo nel scorrere del tempo; è anche colui che riempie ogni istante di questo tempo; è “la pienezza”, il Pleroma (Col 1, 19), anche nel senso attivo che riempie di sé la storia della salvezza: dapprima come figura, poi come evento e infine come sacramento.

Cosa significa tutto ciò, trasportato sul piano personale? Significa che Cristo deve riempire anche il mio tempo. “Riempire di Gesù più istanti possibili della propria vita”: non è un programma impossibile. Non si tratta infatti di stare tutto il tempo a pensare a Gesù, ma di “accorgersi” della sua presenza, abbandonarsi alla sua volontà, di dirgli velocemente “Ti amo!”, ogni volta che abbiamo l’occasione (meglio l’ispirazione!) di rientrare in noi stessi.

La tecnica moderna ci offre un’immagine che ci può aiutare a capire di che si tratta: la connessione a internet. Viaggiando e stando a lungo fuori sede, io ho fatto l’esperienza di che cosa significhi armeggiare a lungo per riuscire avere la connessione a internet, con fili o senza fili, e poi finalmente, quando stavi per arrenderti, ecco comparire di colpo sullo schermo la videata liberatrice di Google. Se prima mi sentivo tagliato fuori, senza poter ricevere la posta, cercare una informazione, comunicare con quelli della mia comunità, ecco che ora mi si spalanca davanti il mondo intero. È avvenuta la connessione.

Ma cos’è questa connessione in confronto a quella che si realizza quando uno si “connette” con la fede con Gesù Risorto e vivo? Nel primo caso, ti si apre davanti il povero e tragico mondo degli uomini; qui ti si apre davanti il mondo di Dio, perché Cristo è la porta, è la via che immette nella Trinità e nell’infinito.

La riflessione su “Cristo e il tempo” che abbiamo cercato di fare può operare una guarigione interiore importante per la maggioranza di noi: la guarigione dal rimpianto sterile della “beata gioventù”, la liberazione da quella mentalità radicata che porta a vedere nella vecchiaia solo una sconfitta e una malattia, e non anche una grazia. Davanti a Dio il tempo migliore della vita non è quello più pieno di possibilità e di attività, ma quello più pieno di Cristo perché esso si inserisce già nell’eternità.

L’anno entrante vedrà i giovani al centro dell’attenzione della Chiesa con il sinodo su “I giovani e la fede” in preparazione alle giornate mondiali della gioventù. Aiutiamoli a innamorarsi di Gesù Cristo e avremo fatto ad essi il dono più bello.

Terminiamo richiamando alla mente le parole con cui l’entrata dell’eterno nel tempo viene proclamata nella notte di Natale, nello stile semplice e grandioso del “sublime”:

“Nel quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Ottaviano Augusto; quando in tutto il mondo regnava la pace, Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, nasce in Betlemme di Giuda dalla Vergine Maria, fatto uomo”.

Intorno al Natale dell’anno 1308 moriva la grande mistica Santa Angela da Foligno. Dal suo letto di morte, rivolta ai figli spirituali che le stavano intorno, a un certo punto esclamò: “Il Verbo si è fatto carne!”. E dopo un lungo intervallo, come se tornasse da un altro mondo, aggiunse: “Ogni creatura viene meno; l’intelligenza degli angeli non basta!”. “In che cosa, le chiesero, ogni creatura viene meno, a che cosa l’intelligenza degli angeli non basta?”. Rispose: “A capire!”[7]. Aveva ragione. È un mistero troppo grande; non si può capire, ma solo adorare.

La Vergine Madre che ora invochiamo con l’antifona mariana ci ottenga la grazia di accogliere, pieni di commossa gratitudine e di stupore, il Verbo di Dio che viene ad abitare in mezzo a noi.

Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, Buon Natale!

[1] Oscar Cullmann, Christ et le temps, Neuchatel – Paris 1947; trad. ital. Cristo e il tempo, 3a ed. Bologna, il Mulino 1967, pp. 39 ss.

[2] Cf. James D. G. Dunn, A New Perspective on Jesus, Grand Rapids, Michigan 2005; trad. ital. Cambiare prospettiva su Gesù, Paideia, Brescia, 2011.

[3] Omelia pasquale dell’anno 387: SCh 36, p. 59 s.

[4] Cf. Origene, Commento al Vangelo di Luca 22,3 (SCh 87, p. 302). Angelo Silesio (Il Pellegrino cherubico, I, 6,1) ha espresso questo stesso pensiero in due versi arditi: “Mille volte a Betlemme fosse Cristo nato / Se in te non nasce per sempre sei dannato” (“Wird Christus tausendmal zu Bethlehem geborn / und nicht in dir: du bleibst noch ewiglich verlorn“).

[5] Jean-Paul Sartre, La nausea, Milano 1984, p. 193 ss.

[6] Cf. Paul Claudel, “Ma conversion”, in Paul Claudel, Oeuvres en prose, Gallimard, Paris 1965, pp. 1009-1010.

[7] Il libro della Beata Angela da Foligno, Ed. Quaracchi, Grottaferrata, 1985, p. 726.