L’Ottavo centenario della Fondazione dei Frati Predicatori

Mercoledì 28 ottobre 2015 sono stato a Montefiore dell’Aso per partecipare alla celebrazione dell’VIII centenario della Fondazione dell’Ordine dei Predicatori Domenicani. Era il momento conclusivo di un triduo promosso dal monastero “Corpus Domini” di Montefiore dell’Aso.
Che dono per la Chiesa intera! Ma anche per la nostra Parrocchia che ha avuto la presenza di Suore che ne hanno testimoniato la spiritualità. Grazie.

Riporto uno scritto di Adolfo Leoni su san Domenico di Guzman a Fermo (settembre 1214).
SAN DOMENICO A FERMO

Lui venne a Fermo. Era il settembre del 1214.
Io lo ricordo molto bene.
Mia madre, tutte le sere, per quasi due mesi, mi aveva portato con sé.
Mi raggiungeva nei vicoli dove giocavo, pieno di polvere e di fango, mi prendeva per mano, risistemava le vesti alla meglio sciacquandomi, alla fontana più vicina, il naso sempre grondante di sangue, eppoi, mi conduceva alla chiesa di San Tommaso, quella vicino all’odierna piazza del Popolo, ai piedi del Girone dove, qualche anno più tardi, avrebbero costruito l’arcigna rocca, e dove, qualche anno prima, l’imperatore tedesco Barbarossa aveva bruciato la grande cattedrale posta in cima al colle.
Lungo la strada, mia madre ricordava continuamente che, da lì a breve, avrei potuto ascoltare un sant’uomo, l’avrei visto in carne ed ossa. “Un sant’uomo – diceva – la cui potenza del cuore innamorato di Cristo vibrava e si rivelava appieno nelle parole dell’omelia appassionata e palpitante di vita”.
L’ardore di frà Domenico colpiva. Indubbiamente! Colpiva e lasciava stupefatti.
Ogni sera, la piccola chiesa illuminata dai ceri e ultimamente parata a festa, si riempiva con sempre più gente proveniente, non solo da Fermo, ma dai diversi borghi dei dintorni.
Pur di ascoltare il grande predicatore, costoro si sottoponevano quotidianamente a marce estenuanti. Si coglieva, in loro, una consapevolezza diffusa: la certezza che da quell’incontro sarebbero usciti cambiati, che qualcosa avrebbe risposto alle esigenze del cuore d’ognuno. C’era, insomma, un’attesa evidente, una certezza, direi, testimoniata dalla letizia dei volti.
Tra la folla, si notavano contadini ed artigiani, nobili e bottegai. Ognuno, in piedi nel piccolo tempio, occupava il suo posto: i popolani, in fondo alla chiesa; gli aristocratici davanti, più prossimi all’altare.
Padre Domenico si stagliava di fronte agli uni e agli altri: le spalle coperte di quel glorioso abito bianco e nero, lo stesso con cui lo aveva veduto nel sogno, poco prima di nascere, sua madre Giovanna, della nobile famiglia castigliana degli Aza.
Guardandolo bene, ora, appoggiato al pulpito, il suo corpo risultava esile e media la sua statura. Gli occhi di tanti scrutavano però il volto del frate. Si diceva infatti che al momento del nascere il piccolo avesse impressa in fronte una luna, o una stella (chissà?), e che sulle sue labbra si fossero posate decine di api, come già era capitato a Gregorio e a Bernardo.
Si diceva anche che accanto a Domenico scodinzolasse un cagnolino bianco e nero, come le vesti del padrone, un animale descritto con una fiaccola tra le fauci e intento sovente a correre intorno ad un globo terrestre.
Al tempo della visita fermana, frà Domenico aveva 43 anni, e una carnagione pallida. I capelli e la barba erano fulvi, e gli occhi sfolgoranti.
Risultava un uomo simpatico. Così, per lo meno, diceva il popolo conquistato, non solo dal suo dire infuocato, ma, soprattutto, da quel sorriso, e dal modo gioviale con cui trattava chiunque incontrasse.
Le sue parole erano sottolineate sempre da un gesticolare espressivo, ma non certo studiato.
Mia madre, ad esempio, fu colpita dalle sue mani. Me lo disse una sera mentre rincasavamo dopo una funzione. Le erano apparse “affusolate e molto belle”, si espresse proprio così. Mani che non erano mai vuote: a volte teneva un libro o un giglio, una pietra o addirittura un minuscolo passerotto.
Ma ad averla colpita era stata anche la sua voce, definita “grave, sonora, e a tratti melodiosa”. Con quella voce dominava le febbri malariche e le tempeste di grandine.
A quel tempo la corona di capelli di Domenico, a guardar bene, ne ospitava diversi di colore bianco.
Quando non si trovava sul pulpito, lo si poteva incontrare lungo le strade di Fermo, o nelle botteghe dei sarti che lo invitavano volentieri a visitarli. Ed era sempre in compagnia di un nobile del luogo, la cui famiglia abitava poco distante dalla chiesa delle predicazioni. Era, costui, Giovanni Albertone dei Paccarone, fratello del rettore della chiesa di San Tommaso.
Se il Santo si trovava nella nostra città, il merito andava proprio a Giovanni. A legarli era infatti una salda amicizia, nata in Francia tempo prima.
Innocenzo III aveva spedito il Paccarone come suo legato nelle terre d’oltralpe dove l’eresia dei Catari era maggiormente radicata.
In quei mesi, gli abitanti del mezzogiorno francese avevano assistito all’instancabile missione di frà Domenico che, nonostante la grande amicizia con Simone de Montfort, capo della crociata contro gli Albigesi, si era tenuto sempre lontano da ogni operazione militare.
Mia madre, che raccoglieva tutte le voci del mercato, mi aveva anche raccontato che frà Domenico, terminata la sua missione francese, era sceso a Roma per assistere al concilio Lateranense. E proprio nel centro della Cristianità lo aveva raggiunto Giovanni, pregandolo di recarsi con lui a Fermo, nella sua città natale. Così era avvenuto.
E nessuno ebbe certo a pentirsene. Domenico lasciò un segno potente tra il popolo. Molte furono le conversioni, molti i giovani, nobili e plebei che chiesero di seguire la sua regola – che era poi quella di Sant’Agostino -, tanta gente cambiò vita, i costumi mutarono. Il vescovo, Ugone II, ne rimase fortemente impressionato. I Paccarone fecero ancora di più. Quando frà Domenico lasciò la nostra città, essi donarono la chiesa di San Tommaso ai seguaci del Guzmann. Correva l’anno 1216. Anni dopo, nel 1233, i Padri Predicatori di Fermo vollero edificare un tempio più grande, dedicato al proprio fondatore. Nacque così la chiesa di San Domenico. Laddove c’era quella di San Tommaso furono aggiunte nuove fondamenta, con ben quattro pietre inaugurali.
La prima ebbe la firma del cardinal Colonna, legato papale nella Marca; la seconda, del vescovo Filippo (II); la terza, della regina Berengaria, sorella e moglie di re, che s’era accollata la spesa del nuovo edificio. L’ultima pietra fu dei funzionari imperiali di Federico II, sotto cui si trovava la nostra città in quei frangenti.
La festa fu grande, quel giorno; una festa a cui prese parte l’intero contado.
Ad un certo punto, un giovane monaco, salito sul pulpito, rammentò alla folta platea la vita di frà Domenico, specie l’ultima sua esortazione prima di morire, quel sei agosto 1221 a Bologna, nel piccolo priorato di Santa Maria in Monte.
Era felice, Domenico, il sogno del suo Ordine di Frati Predicatori era stato esaudito da Onorio III, tre anni prima. L’orgoglio poteva però prevalere, ed era, anzi, già in agguato.
Fu allora che, con il respiro sempre più flebile, rivolse ai suoi “Domini Canes” l’ultima esortazione: “Caritatem habete, humilitatem servate, paupertatem voluntariam possidete”, abbiate carità, conservate l’umiltà, possedete una volontaria povertà.
“Era il suo testamento spirituale”, disse mia madre a cui erano venute le lacrime agli occhi, “ora Domenico poteva spirare, in pace e letizia”.