In prima linea non solo sul versante dell’istruzione ma anche su quello dell’educazione, a volte hanno l’impressione di essere un po’ dimenticati e poco valorizzati: sono gli insegnanti. Eppure lavorano in uno dei “villaggi” più importanti della nostra società, quello della comunità scolastica che forma gli uomini e le donne del futuro. E proprio “A servizio del villaggio” era intitolato l’incontro per docenti di ogni ordine e grado, organizzato, nell’ambito del cammino sinodale diocesano, lo scorso 25 febbraio a Villa Nazareth, guidato da Luca Girotti, direttore dell’Ufficio diocesano per l’educazione, la scuola e l’università, alla presenza dell’arcivescovo, mons. Rocco Pennacchio, e del vicario per la pastorale, don Enrico Brancozzi.

Come ha detto uno degli intervenuti, è stato un appuntamento importante anche per dire, da parte della Chiesa locale, “ti voglio bene insegnante”. L’evento, che ha visto la partecipazione di una quarantina di docenti provenienti da tutto il territorio diocesano, ha suscitato interesse e gratitudine e si è subito configurato come un momento sui generis: è cominciato con un sondaggio sul mondo della scuola fatto tramite cellulare e a sorpresa a parlare non è stato un relatore ma i partecipanti, stimolati da alcune domande; gli interventi sono stati numerosi e appassionati e lo stesso pastore ha ringraziato tutti per il contributo di “idee e sentimenti”.

La parola più usata dagli insegnanti per definire la scuola di oggi, è stata “complessa”, quella per descrivere se stessi come docenti, “paziente”, e il rapporto tra scuola e comunità ecclesiale è stato definito “inesistente”. Il quadro emerso è quello di un ambiente, quello scolastico, che può essere considerato “inclusivo” e anche “multiculturale”, ma dove si incontrano ragazzi che spesso “si sentono soli”, che si portano dentro un “vuoto esistenziale, affettivo e relazionale” e sono affamati di “punti di riferimento” e “bisogno di senso”. Più voci hanno sottolineato la necessità di instaurare “relazioni autentiche” sia con i ragazzi che con i colleghi e il personale scolastico, di “ascoltare e interessarsi” delle loro vite, perché a volte è l’unico modo di “esserci”. Alla domanda di un’insegnante, che si chiedeva “quale differenza cristiana posso portare?”, la risposta che si poteva cogliere in altri interventi era quella di “curare prima di tutto la nostra spiritualità e poi il nostro rapporto con Dio, perché la nostra fede traspare”. Certo la scuola è “laica” e a volte si fatica perché sembra quasi esserci “un’ostilità ideologica” verso chi è credente e in certi momenti “la secolarizzazione è scoraggiante”.

Tra le proposte emerse ci sono state quelle di offrire ai docenti altre occasioni di conoscenza e confronto, di prestare maggiore attenzione, da parte della Chiesa locale, al mondo della cultura e della scuola, di cercare di ricreare spazi di incontro e di socializzazione, magari alla presenza di un adulto, per i ragazzi, e anche di pensare di come colmare il vuoto di formazione per gli adulti che desiderano fare un cammino di fede.

Mons. Pennacchio ha sottolineato che “la migliore evangelizzazione è fare bene il nostro lavoro e non nascondere la nostra fede”. Questo non significa che “dobbiamo piantare delle bandierine” e ha concordato che la cosa più importante è costruire una “relazione umana forte e significativa”. Quello che ci è chiesto è “essere ed esserci”: una Chiesa più sinodale e partecipata non deve preoccuparsi tanto della sua riorganizzazione interna quanto delle persone che sono “fuori” e che “non vanno lasciate sole”, perché “dovunque c’è l’uomo là ci dobbiamo essere noi”. Nella scuola siamo chiamati ad essere “autorevoli”, a “rispettare ed essere rispettati”, ma anche a “stimolare il senso critico” e “smascherare le strumentalizzazione ideologiche, senza mai dire che ci sono i migliori e i peggiori”.

Alla fine dell’incontro l’Arcivescovo ha ricordato ai presenti che “come battezzati siete sicuramente Chiesa, perché Chiesa è là dove sono i cristiani, non solo dove si radunano”.

 

Simona Mengascini