Cardinale Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI,

Sessione primaverile del Consiglio Episcopale Permanente

(Roma, 20-22 marzo 2023)

 

Premessa

 

In questa giornata – lo sappiamo – la liturgia offre alla nostra meditazione e preghiera San Giuseppe. Mi pare provvidenziale farci guidare dalla sua figura. Il primo tratto che colpisce è la cura che prende di Maria e del Bambino Gesù. Li ama come richiesto dall’angelo, andando oltre la giustizia e superando il comprensibile timore. Nell’incertezza, spesso faticosa, per molti terribile, dei passi del nostro vagare – comunque sempre contati da Dio – ascoltare e mettere in pratica la Parola permette di trovare il cammino, di scegliere la direzione, di prendersi cura degli altri, di vedere con gli occhi della fede le messi che già biondeggiano anche se mancano cinque mesi alla mietitura. San Giuseppe ci ricorda che siamo custoditi e dobbiamo custodire, specialmente nei momenti di crisi, nelle pandemie scatenate dal male. In esse ci scopriamo tutti vulnerabili e pellegrini su questa terra. Giuseppe assume la responsabilità paterna: non è un consulente che presta la sua opera senza assumersi responsabilità. Custodire è far crescere Gesù, proteggerlo perché si riveli. Giuseppe non lo lega a sé, non lo possiede: lo custodisce perché ascolta e ama.

 

Dall’inverno alla primavera

 

La solennità di San Giuseppe è un preludio della primavera, che secondo il calendario civile si apre domani. Anche la liturgia quaresimale ci aiuta a pregustare la gioia della Pasqua. La vita sta tornando a fiorire. Ma la vita può fiorire di nuovo? Nella mia Introduzione al Consiglio Episcopale Permanente del 20 settembre 2022, tenuto a Matera, usavo la metafora dell’inverno per individuare alcune fragilità e sofferenze del nostro tempo e della nostra gente: inverno dell’ambiente, della società, dei divari territoriali, della denatalità, dell’educazione. Inverno secondo alcuni irreversibile. Suggerivo di profittare di questa situazione per apprendere uno “sguardo dal basso”, che consentisse di commuoversi e farsi carico delle fatiche dei più poveri. Ma anche chiedevo di impegnarsi in uno “sguardo lungo”, di costruire con generosità e intelligenza, pensando al dopo di noi, per comunicare la speranza cristiana che con fiducia pensa che tutto possa cambiare e il deserto fiorire.

Credo che questa sia la nostra prospettiva odierna: riconoscere con sincerità le difficoltà ecclesiali e sociali, credendo, però, che oggi “Tantum aurora est”, che siamo vicini ad una nuova primavera della Chiesa, aprendo nuove e coraggiose prospettive di futuro. Per questo occorre passione, visione profetica, libertà evangelica e intelligenza della comunione, generosa responsabilità e gratuità nel servizio. La sinodalità è tutt’altro che rinuncia o omologazione al ribasso! Dobbiamo sapere riconoscere i tanti segni della sua predilezione e dei doni che ci sono affidati e accettare la vera sfida che è costruire comunità, case dove abiti il Signore Gesù e sua Madre, nostra Madre, la Chiesa.

La pandemia ha fatto affiorare alcune debolezze ecclesiali più o meno latenti. Non le dobbiamo osservare con pervasivo pessimismo, con quella sottile tentazione di fermarci solo sulle difficoltà, sui limiti, con quell’incredulità pratica di sapere solo vedere i problemi, interpretandoli anche in maniera raffinata ma senza credere che siano occasione per l’opera di Dio. Non dimentichiamo le tentazioni dello gnosticismo e del pelagianesimo, indicate da Papa Francesco. E non dobbiamo nemmeno correre dietro la ricerca illusoria e ipocrita di comunità perfette, ma riconosciamo nella nostra fragilità e contraddizione, i tanti comportamenti virtuosi, che non dobbiamo dimenticare né perdere perché dono dello Spirito.
Sempre con una indispensabile cautela possiamo dire che ci troviamo ormai nella stagione post-pandemica, come l’OMS ha preannunciato. La dolorosa stagione del COVID ci impone un impegno forte per trasformare la sofferenza in consapevolezza e sapienza umana ed ecclesiale. “Assieme alle manifestazioni fisiche, il COVID-19 ha provocato, anche con effetti a lungo termine, un malessere generale che si è concentrato nel cuore di tante persone e famiglie, con risvolti non trascurabili, alimentati dai lunghi periodi di isolamento e da diverse limitazioni di libertà”, così come ha “toccato alcuni nervi scoperti dell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze. Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti e aggravato la solitudine sempre più diffusa nelle nostre società, in particolare quella dei più deboli e dei poveri. Pensiamo, ad esempio, ai milioni di lavoratori informali in molte parti del mondo, rimasti senza impiego e senza alcun supporto durante tutto il periodo di confinamento”. Così ci ha scritto Papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata della pace. Penso anche al disagio psichico che fa soffrire tantissime persone, spesso giovani e che ci chiede di ritrovare un senso di comunità, di relazione, di intelligente e forte attenzione alla fragilità.

Considerando la stagione della pandemia dobbiamo evitare che il ricorso alla comunicazione digitale, così importante durante l’isolamento, sostituisca la presenza e diventi funzionale all’individualismo e alla patologia della paura. Penserei, per esempio, opportuno terminare con tante trasmissioni informatiche che inducono a chiudersi. Ci chiediamo: “Cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo?”. Dobbiamo nutrire una cultura cristiana, che dia significato e forma alla parola “insieme” perché “è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi” (Papa Francesco, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2023).

Ricordando la pandemia un pensiero va ai tanti presbiteri, diaconi, cappellani ospedalieri e operatori pastorali che si sono impegnati, a volte anche a costo della vita, per portare consolazione là dove c’era solitudine e morte. Ma ancora più numerosa è la schiera di laici, medici, infermieri, professionisti o semplici volontari, che con amore hanno accompagnato tante persone soprattutto anziane nell’ultimo tratto della loro esistenza. È stata la stagione dei “santi della porta accanto”. Essi hanno di fatto reinventato una pastorale fuori dagli abituali confini fisici e mentali delle parrocchie, mostrando tanta solidarietà, prossimità, amore gratuito. Abbiamo capito con più vivezza che l’identità della comunità cristiana non si misura soltanto in base alla partecipazione alla liturgia domenicale. La preghiera, personale e comunitaria, ha sempre un orizzonte molto più ampio, che rende la comunità cristiana quello che deve essere, una famiglia capace di fare sentire a casa, di raggiungere le persone nelle loro case perché non siano luoghi isolati o carceri di solitudine, tessendo i legami umani e affettivi comandati dall’amore cristiano. La carità appartiene di diritto all’esperienza di fede di ogni cristiano e non può essere delegata solo ad alcuni, come non può mai essere scissa dalla dimensione spirituale. Amore e verità si nutrono l’uno dell’altra.

 

La Chiesa del dopo-pandemia

 

Giuseppe compie scelte coraggiose che determinano una svolta nella vita propria e della sua famiglia. Come non pensare alla fuga da Erode, diventando profugo in Egitto? E come non ricordare l’ultima tragedia che ha coinvolto profughi, che non hanno trovato chi custodiva la loro vita? Ringrazio di cuore quanti si sono prodigati in loro aiuto, manifestazione di tanta umanità e la Chiesa di Crotone che ha mostrato il volto di madre della nostra Chiesa. San Giuseppe è e resta un uomo “ordinario”, un normale lavoratore, come è dimostrato dal fatto che a Nazareth era noto come “il carpentiere” (Mc 13, 55). La sua fortezza e temperanza sono virtù richieste anche oggi a tutta la nostra Chiesa, che sta reimpostando il suo essere comunità credente dopo la pandemia.

Desidero ricordare l’appello che da Matera abbiamo inviato ai politici, ma per certi versi a tutti e che indicava alcune preoccupazioni che chiedono di trovare risposte certe, non provvisorie, precarie, sempre parziali: “Le povertà in aumento costante e preoccupante, l’inverno demografico, i divari tra i territori, la transizione ecologica e la crisi energetica, la difesa dei posti di lavoro, soprattutto per i giovani, i migranti, il superamento delle lungaggini burocratiche, le riforme dell’espressione democratica dello Stato e della legge elettorale”. È davvero per tutti tempo di scelte coraggiose e non di opportunismi.
È in questo contesto che si colloca il Cammino sinodale delle Chiese in Italia, che vive il passaggio dalla fase dell’ascolto a quella del discernimento, volano di questa “riscrittura ecclesiale”. Nessuno si illude che vi sia la soluzione ad ogni difficoltà né che questo processo sia vissuto da tutti con il medesimo slancio. Quanti si sono coinvolti in questo cammino, a cominciare dai referenti diocesani fino ai componenti del Comitato e della Presidenza del Cammino sinodale, ci raccontano la soddisfazione del percorso fatto insieme, che sta educando progressivamente tutti i protagonisti a uno stile spirituale e pastorale nuovo. Le Chiese hanno dato voce ad una pluralità di soggetti, che hanno mostrato il valore della fede vissuta come esperienza domestica. Questa varietà di soggetti e la loro partecipazione responsabile nelle dinamiche ecclesiali mi pare la premessa migliore per giungere preparati quando sarà tempo di prendere le necessarie e coraggiose decisioni evangeliche, che coinvolgeranno tutti ai vari livelli, dalle singole Chiese locali, alle Regioni ecclesiastiche, alla Chiesa in Italia nella sua unitarietà e alla CEI stessa. Penso necessario che non si perda lo slancio di vitalità e creatività, che nel tempo della pandemia ha generato pratiche pastorali nuove nelle forme e nei contenuti.

La Chiesa del post-pandemia e del Cammino sinodale si configura sempre più chiaramente come una Chiesa missionaria, della chiamata e dell’invio di ognuno, che si misura con le domande, le sfide, con la necessità di diffondere una cultura cristiana come chiave per capire e consolare la tanta sofferenza. La pandemia ha posto tutti bruscamente dinanzi ad alcune domande esistenziali fondamentali, come il senso della morte, il perché del dolore innocente, il valore tutto umano della vita dal suo inizio alla sua fine, l’importanza della gratuità, la fragilità. Mi piace immaginare una Chiesa che si faccia carico di queste domande e offra luce e speranza per nuove motivazioni che affranchino dalla paura.

 

10 anni di Papa Francesco

 

Il 19 marzo 2013, nella solennità di San Giuseppe, Papa Francesco riceveva il pallio e l’anello del pescatore come segno dell’inizio del Suo ministero petrino. Sappiamo che per Lui Giuseppe è un Santo speciale. In questi dieci anni di pontificato, ne ha mostrato quei tratti che ho rilevato sinora.

Oggi sentiamo di rivolgerGli un grande “grazie” per l’insegnamento che ci ha consegnato in questi anni. Conosciamo i Suoi discorsi e i Suoi documenti ufficiali, che hanno inciso in profondità nella vita delle nostre comunitàAbbiamo imparato ad apprezzarLo nei Suoi gesti simbolici come la preghiera del 27 marzo 2020 in una piazza San Pietro deserta o come il bacio ai piedi dei leader del Sud Sudan chiedendo il loro sforzo per la pacificazione di quella terra. Ne abbiamo colto ancora l’impegno esplicito per la pace in Ucraina, ma anche nei tanti focolai di guerra sparsi per il mondo. Si è mostrato vicino alle popolazioni martoriate dalle calamità naturali, come il terribile terremoto che ha recentemente colpito la Turchia e la Siria. Ha denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza” e si è mostrato attento a quanti sono costretti a migrare nella speranza di una vita migliore, rischiando e spesso purtroppo perdendo la vita stessa. Ha sempre invitato a non accontentarsi del “si è sempre fatto così” ed ha piuttosto spronato a realizzare una Chiesa in uscita, proiettata verso le periferie esistenziali.

Per questo ho detto che Papa Francesco ha assunto alcuni tratti di San Giuseppe: vediamo in Lui la cura dell’altro, la custodia dei più deboli, la solidità della fede quotidiana e il coraggio di sognare la Chiesa di oggi e di domani. Le Sue parole e i Suoi gesti sono diventati per noi un programma ecclesiale e ci offrono anche un linguaggio che avvicina tanti ed è comprensibile a tutti. Adesso, facendomi portavoce dei Pastori delle Chiese che sono in Italia, desidero ringraziarLo. E al contempo assicurarGli la nostra preghiera, perché San Giuseppe Lo sostenga nel Suo ministero. Le Sue parole e il riferimento al discorso di Firenze restano per noi una preziosa indicazione, segnano l’urgenza di tanto impegno pastorale insieme a tutto il popolo che ci è affidato e ci spingono a intraprendere con coraggio e responsabilità il nostro cammino ecclesiale.

 

Preghiera a San Giuseppe

 

Desidero concludere questa Introduzione affidando dunque anche i lavori di questo Consiglio Episcopale Permanente alla cura e alla paterna intercessione di San Giuseppe. Ci attende una riflessione approfondita, soprattutto in vista della prossima Assemblea Generale di maggio. Il nostro è un compito alto e delicato, che coinvolge la vita delle Chiese che sono in Italia. Abbiamo bisogno di affrontare questi giorni con fede e senso di responsabilità. Per questo, chiediamo la protezione del Patrono della Chiesa universale. A lui ci rivolgiamo con la preghiera che il Papa ha posto a conclusione della Lettera Apostolica Patris corde (8 dicembre 2020):

Salve, custode del Redentore,
e sposo della Vergine Maria.
A te Dio affidò il suo Figlio;
in te Maria ripose la sua fiducia;
con te Cristo diventò uomo.
O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,
e guidaci nel cammino della vita.
Ottienici grazia, misericordia e coraggio,
e difendici da ogni male. 
Amen.

 

20 Marzo 2023