Lo scorso 4 luglio, mons. Angelo Fagiani è tornato alla casa del Padre. Nel suo servizio alla Chiesa è stato anche parroco a Civitanova alta. Alcuni testi delle sequie del 6 luglio, per ricordarlo e ringraziare della testimonianza che ha donato. Tre testi:

Omelia dell’Arcivescovo Rocco nelle esequie;

ricordo di don Nicola del Gobbo e don Enrico Brancozzi.

OMELIA ESEQUIE Mons. Angelo Fagiani

Duomo di Fermo, 6 luglio 2020

Saluto i confratelli vescovi presenti (molti che non hanno potuto partecipare hanno assicurato la loro preghiera); in particolare saluto l’Arcivescovo di Camerino, Mons. Francesco Massara, e il Presidente della Conferenza Episcopale Marchigiana, Mons. Piero Coccia, il sindaco di Camerino, l’Arcivescovo emerito di Camerino-San Severino Marche, Mons. Francesco Giovanni Brugnaro, immediato successore di Mons. Fagiani dopo un lungo periodo di amministrazione apostolica da parte di Mons. Giancarlo Vecerrica. Saluto i numerosi presbiteri presenti, tra i quali un nutrito gruppo proveniente dalla diocesi camerte. Ringrazio tutti voi, convenuti nella nostra Chiesa Cattedrale, per dare l’ultimo saluto a Don Angelo Fagiani, prete fermano, Arcivescovo emerito di Camerino-S. Severino Marche. Abbiamo voluto riproporre il vangelo risuonato nella liturgia di ieri, XIV domenica del T.O., perché la circostanza che stiamo vivendo sembra particolarmente interpellata dal discorso che ci ha fatto Gesù. Egli, che precedentemente era stato respinto in Corazin, Betsaida e Cafarnao, ora esulta nella lode perché le cose di Dio rimangono nascoste a chi si crede sapiente, intelligente, dotto, e sono invece intuite e accolte dai semplici, dai piccoli. Quali sono queste cose di cui parla Gesù? Quella centrale è certamente il mistero di un Dio che si fa vicino all’uomo, prossimo a lui, nell’incarnazione del Figlio; mistero che, pur essendo sconvolgente e immediato, lasciò insensibili, immobili nelle loro convinzioni – anzi scandalizzati – i farisei, mentre fu accolto dai poveri, i peccatori, gli affaticati e gli oppressi che trovarono in Cristo accoglienza e ristoro. Anche a noi Gesù chiede di metterci continuamente in sintonia con lui, abbandonando supponenza e presunzione, cercando invece nella semplicità di cuore tipica dei bambini e dei piccoli, quell’indispensabile premessa perché noi per primi possiamo incontrare Cristo incarnato e poterlo annunciare agli altri. Quando questo avviene, ed è la seconda parte del vangelo, seguirlo, trovare ristoro in lui, imitarlo (imparare dalla sua umiltà e mitezza) diventa non solo possibile ma addirittura soave e leggero. Il giogo che ci chiede di portare sulle spalle non è un prezzo da pagare ma è il senso di marcia, la guida sicura, l’ispirazione che dà senso alla nostra vita. Ricordiamo che il giogo era un peso posto sul collo dei buoi che consentiva loro di trasportare carichi pesanti, di andare diritti senza deviare, e di andarci insieme. Il giogo allora è ciò che ci permette di proseguire sicuri nella giusta direzione, insieme. Questo giogo non può che scaturire dalla croce di Cristo. Cos’altro potrebbe chiederci Gesù di portare sulle spalle se non lo stesso di cui Egli stesso si è caricato per amore? Non possiamo infatti essere suoi discepoli e non fare nostra la modalità che lui ha scelto per starci vicino: il dono di sé, il servizio, il perdono, un amore spinto fino alla morte e alla morte di croce. Don Angelo, che ha ispirato la sua vita alla grandezza dell’amore (più grande è la carità, recita il suo motto episcopale) aveva certamente capito, e forse gli riusciva anche grazie alla sua indole, come vivere il primato della carità nella semplicità di cuore e nell’umiltà. La sua storia, il profilo biografico che don Enrico, Rettore del Seminario e Direttore della Casa del Clero, ha letto all’inizio della Messa lo confermano. In particolare, tutti siamo rimasti edificati da come ha vissuto sedici anni nella casa del Clero, continuando a seguire la strada di Cristo mite e umile di cuore, attraverso il giogo della croce che si manifestava nella sofferenza, vissuta con dignità, semplicità, serenità. Un giogo che, mi permetto di dire, è stato molto alleviato da quanti quotidianamente, anzi ad horas, gli sono stati vicino con dedizione, come fanno per tutti i sacerdoti ospiti: le suore, gli operatori sanitari, i seminaristi, il personale. Alla luce di questa testimonianza, sostenuta dal suo ministero presbiterale ed episcopale, possiamo veramente dire che è grande la fede, è grande la speranza ma, di tutte, più grande è la carità, ci ha ricordato San Paolo. Ed è anche quella che rimane per sempre, l’anello di congiunzione tra questa e l’altra vita. La carità rimane, perché l’amore del Signore dura in eterno e questo nostro fratello vescovo ci ha insegnato a viverla in modo sommo. Con le parole del profeta Zaccaria, ti accompagniamo nell’ultimo tratto, caro don Angelo: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”.

Ricordo di don Nicola Del Gobbo

“Major est caritas”. (1Cor 13,13) Questo è il motto scelto da mons. Angelo Fagiani per lo stemma del suo ministero episcopale cui fu chiamato da San Giovanni Paolo II il 14 maggio 1997. È dunque “Agape” la parola chiave, il paradigma, la cifra della vita di mons. Fagiani, nato a Monterubbiano il 18 aprile 1943 e ordinato sacerdote il 13 marzo 1967. Il motto è preso dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinti: “Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!”. Maior est caritas. Una carità discreta, delicata, rispettosa. Uno studioso di ebraico ha scritto che “amerai il tuo prossimo come te stesso”, (come si legge nel libro del Levitico 19,18) non è la traduzione giusta. L’amore non è un arco teso contro un bersaglio dove l’io è soggetto e il prossimo un complemento oggetto, un accusativo. La lettura giusta è “amerai AL tuo prossimo come te stesso”, l’altro è un dativo. Non sono sottigliezze grammaticali, ma stile agapico. Sbaglia chi dice di amare l’altro e vive l’altro come un oggetto: un oggetto da raggiungere, da conquistare, da possedere, da occupare, da consumare. Don Angelo ha effuso il suo servizio di carità pastorale al dativo, rispettando i tempi dell’altro. Si è fatto vicino ed ha condiviso il cammino con quanti gli stavano intorno. Lo ha fatto da insegnante di teologia morale all’Istituto Teologico di Fermo, lo ha fatto come rettore del Seminario arcivescovile di Fermo, lo ha fatto come parroco dapprima a Civitanova Alta e poi a Porto S. Elpidio nella parrocchia della SS. Annunziata. Ha effuso la sua carità nel ministero episcopale a CamerinoSan Severino Marche dove con la sua 127 bianca è corso a dare speranza ad ogni famiglia della sua diocesi colpita dal terremoto del 1997. Ha effuso la sua carità fermandosi sulla soglia della libertà degli altri con il movimento dei Cursillos, con i lavoratori, con l’Azione Cattolica. E poi, dopo la sua malattia, che lo ha costretto a dare le dimissioni dal servizio a Camerino San Severino, ha continuato a vivere la sua agape nella Casa del Clero del Seminario di Fermo. “Il cristianesimo non è opera di persuasione, ma di grandezza”, scriveva Ignazio di Antiochia ai cristiani di Roma alla fine del I secolo, durante il suo viaggio verso la capitale dell’impero, dove avrebbe subito il martirio. Lo stile è importante quanto il messaggio. E don Angelo aveva quella pazienza, quella delicatezza, quella premura da offrire la perla del Vangelo incastonata in una montatura speciale. Aveva la consapevolezza dell’urgenza che l’annuncio fosse accompagnato da una testimonianza di vita, da un modo di agire conforme al messaggio che si vuole comunicare. La sua testimonianza, anche in questi ultimi anni nella casa del clero, è stata abitata da una esigente dinamica spirituale, da una tensione verso i principi evangelici fondamentali: Dio e l’altro. Non mancava mai ad ogni momento di preghiera programmato quotidianamente: lodi, rosario, celebrazione eucaristica. Si accorgeva sempre dell’assenza di qualche ospite, di qualche inserviente, di qualche seminarista. Chiedeva informazioni. Era presente alla situazione di ciascuno. Senza questa vigilanza, senza il discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male per me, per gli altri, per l’insieme della convivenza, si corre il rischio di divenire sale che perde il suo sapore e di contraddire quel “tra voi non è così” che Gesù rivolse ai suoi discepoli mettendoli in guardia dall’agire come “coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni”. Il vescovo Angelo ha continuato a servire anche nella Casa del Clero sapendo che “caritas” è diretta a Dio e alle persone. Sono le due esigenze fondamentali di ogni battezzato: l’ascolto della volontà di Dio manifestata nella sua Paola e nella persona di Gesù di Nazaret e l’ascolto dei propri fratelli e sorelle in umanità. Percorso non agevole, per lui che non poteva muoversi liberamente, ma capace di dare e ridare senso alla propria e alle altrui esistenze e, di conseguenza, di contribuire alla vita della comunità ecclesiale. Fin troppo facile, per la vita di don Angelo, dire che “Nomen omen”. Il nome è appropriato alla persona. È stato un angelo, “anghelos”, il messaggero, l’inviato, uno che parla e agisce al posto e in nome di colui che lo manda. Ci ha annunciato che il Regno di Dio è già qui. Noi di tutto questo siamo stati testimoni. Abbiamo vissuto insieme ad Angelo che, senza disturbare, con un battito d’ali ci ha lasciato sabato 4 luglio di mattina presto. Ora vive nell’abbraccio di Dio.

Don Nicola Del Gobbo

«Beati i miti perché erediteranno la terra» (Mt 5,5)
L’esperienza spirituale ed umana di mons. Angelo Fagiani: una breve testimonianza
di don Enrico Brancozzi*

La mitezza mi sembra essere la cifra riassuntiva dell’esistenza terrena di don Angelo, il suo tratto distintivo, o almeno quello che emergeva di più rispetto a coloro che lo avvicinavano. Il ricordo di don Angelo mi fa tornare alla mente numerosi episodi accaduti in diverse fasi della sua vita. Ne scelgo alcuni. Il primo è stato l’incontro con don Angelo quando era rettore del seminario negli incontri vocazionali proposti a ragazzi ed adolescenti una domenica al mese. Erano delle giornate animate dai seminaristi e dai formatori alle quali don Angelo dava sempre una grande contributo di umanità. Lo ricordo sorridente, disponibile a dialogare con noi, a rispondere alle nostre domande, sempre in atteggiamento di servizio. Mi colpiva che era il primo ad alzarsi per servire a tavola o per sparecchiare. Ero sorpreso dalla libertà che ci lasciava, quasi non avesse bisogno di imporsi. Il secondo ricordo è l’incontro con il docente di teologia morale nel triennio di studi. Ho frequentato alcuni corsi tenuti da don Angelo, di cui ricordo la chiarezza, la linearità e il fatto che non si sottraesse mai alle domande più scomode. Anzi, con chi desiderava rimaneva spesso a discutere sui corridoi anche dopo la fine della lezione. Ricordo alcuni temi per me nuovi e spinosi: il rapporto tra la morale e le istanze della teologia della liberazione, la dottrina sociale della Chiesa, il nesso tra morale ed economia, le questioni del lavoro, della famiglia, della bioetica. Confessava di non essere più aggiornato come un tempo e che avrebbe desiderato poter studiare di più. Eppure rimaneva un uomo colto e preparato, di cui ammiravo lo sforzo di mostrare la plausibilità del magistero in una fedeltà creativa e mai ottusa. Ricordo che proseguì l’insegnamento per un paio di anni anche da vescovo e che il preside permise ad alcuni di noi ritardatari di sostenere l’esame in episcopio a Camerino. Il terzo ricordo, il più recente e quindi anche il più forte, è quello di don Angelo in questi anni nella casa del clero. Gli incontri erano diventati brevi e di poche parole per la difficoltà a farsi capire, anche se quotidiani. Immutata però è sempre rimasta la sua finezza d’animo, la sua gentilezza, la sua premura, la sua attenzione per gli altri, il senso di accoglienza che infondeva in chi gli stava davanti. Esemplare è stato per me il modo con cui ha portato con fede la croce della malattia senza mai lagnarsi, quasi cercando di disturbare il meno possibile. Sono certo che il Signore, come al servo fedele, lo avrà fatto accomodare a tavola e starà passando a servirlo.

*Rettore del Seminario Arcivescovile di Fermo e docente dell’Istituto Teologico Marchigiano