Alle 12, Francesco dalla finestra dello studio nel Palazzo Apostolico Vaticano ha recitato l’Angelus. Di seguito, ciò che ha detto prima e dopo la preghiera mariana:

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nel Vangelo della liturgia odierna c’è un’espressione di Gesù che sempre ci colpisce e ci interroga. Mentre è in cammino con i suoi discepoli, Egli dice: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12, 49). Di quale fuoco sta parlando? E che significato hanno queste parole per noi oggi, questo fuoco che porta Gesù?

Come sappiamo, Gesù è venuto a portare nel mondo il Vangelo, cioè la buona notizia dell’amore di Dio per ciascuno di noi. Perciò ci sta dicendo che il Vangelo è come un fuoco, perché si tratta di un messaggio che, quando irrompe nella storia, brucia i vecchi equilibri del vivere, sfida a uscire dall’individualismo, sfida a vincere l’egoismo, sfida a passare dalla schiavitù del peccato e della morte alla vita nuova del Risorto, di Gesù risorto. Il Vangelo, cioè, non lascia le cose come stanno; quando passa il Vangelo, ed è ascoltato e ricevuto, le cose non rimangono come stanno. Il Vangelo provoca al cambiamento e invita alla conversione. Non dispensa una falsa pace intimistica, ma accende un’inquietudine che ci mette in cammino, ci spinge ad aprirci a Dio e ai fratelli. È proprio come il fuoco: mentre ci riscalda con l’amore di Dio, vuole bruciare i nostri egoismi, illuminare i lati oscuri della vita – tutti ne abbiamo! -, consumare i falsi idoli che ci rendono schiavi.

Sulla scia dei profeti biblici – pensiamo per esempio a Elia e a Geremia – Gesù è acceso dal fuoco dell’amore di Dio e, per farlo divampare nel mondo, si spende in prima persona, amando fino alla fine, cioè fino alla morte e alla morte di croce (cf. Fil 2, 8). Egli è ricolmo di Spirito Santo, che è paragonato al fuoco, e con la sua luce e la sua forza svela il volto misericordioso di Dio e dà pienezza a quanti sono considerati perduti, abbatte le barriere delle emarginazioni, guarisce le ferite del corpo e dell’anima, rinnova una religiosità ridotta a pratiche esteriori. Per questo è fuoco: cambia, purifica.

Che cosa significa dunque per noi, per ognuno di noi – per me, per voi, per te -, che cosa significa per noi questa parola di Gesù, del fuoco? Ci invita a riaccendere la fiamma della fede, perché essa non diventi una realtà secondaria, o un mezzo di benessere individuale, che ci fa evadere dalle sfide della vita e dall’impegno nella Chiesa e nella società. Infatti – diceva un teologo–, la fede in Dio «ci rassicura, ma non come vorremmo noi: cioè non per procurarci un’illusione paralizzante o una soddisfazione beata, ma per permetterci di agire» (De Lubac, Sulle vie di Dio, Milano 2008, 184). La fede, insomma, non è una “ninna nanna” che ci culla per farci addormentare. La fede vera è un fuoco, un fuoco acceso per farci stare desti e operosi anche nella notte!

E allora possiamo domandarci: io sono appassionato al Vangelo? Io leggo spesso il Vangelo? Lo porto con me? La fede che professo e che celebro, mi pone in una tranquillità beata oppure accende in me il fuoco della testimonianza? Possiamo chiedercelo anche come Chiesa: nelle nostre comunità, ardono il fuoco dello Spirito, la passione per la preghiera e per la carità, la gioia della fede, oppure ci trasciniamo nella stanchezza e nell’abitudine, con la faccia smorta e il lamento sulle labbra e le chiacchiere ogni giorno? Fratelli e sorelle, verifichiamoci su questo, così che anche noi possiamo dire come Gesù: siamo accesi del fuoco dell’amore di Dio e vogliamo “gettarlo” nel mondo, portarlo a tutti, perché ciascuno scopra la tenerezza del Padre e sperimenti la gioia di Gesù, che allarga il cuore – e Gesù allarga il cuore! – e fa bella la vita. Preghiamo per questo la Vergine Santa: lei, che ha accolto il fuoco dello Spirito Santo, interceda per noi.

Dopo l’Angelus

Cari fratelli e sorelle! Desidero attirare l’attenzione sulla grave crisi umanitaria che colpisce la Somalia e alcune zone dei Paesi limitrofi. Le popolazioni di questa regione, che già vivono in condizioni molto precarie, si trovano ora in pericolo mortale a causa della siccità. Auspico che la solidarietà internazionale possa rispondere efficacemente a tale emergenza. Purtroppo la guerra distoglie l’attenzione e le risorse, ma questi sono gli obiettivi che esigono il massimo impegno: la lotta alla fame, la salute, l’istruzione.

Rivolgo un cordiale saluto a voi, fedeli di Roma e pellegrini di vari Paesi. Vedo bandiere polacche, ucraine, francesi, italiane, argentine! Tanti pellegrini. Saluto, in particolare, gli educatori e i catechisti dell’unità pastorale di Codevigo (Padova), gli universitari del Movimento Giovanile Salesiano del Triveneto e i giovani dell’unità pastorale di Villafranca (Verona).

E un pensiero speciale va ai numerosi pellegrini che oggi si sono radunati nel Santuario della Divina Misericordia a Cracovia, dove vent’anni fa San Giovanni Paolo II fece l’Atto di Affidamento del mondo alla Divina Misericordia. Più che mai vediamo oggi il senso di quel gesto, che vogliamo rinnovare nella preghiera e nella testimonianza della vita. La misericordia è la via della salvezza per ognuno di noi e per il mondo intero. E chiediamo al Signore, misericordia speciale, misericordia e pietà per il martoriato popolo ucraino.

Auguro a tutti una buona domenica. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci, anche ai ragazzi dell’Immacolata.