Adorerai il Signore Dio tuo

 

Quest’anno ricorre, come sappiamo, l’VIII centenario dell’incontro di Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto al-Kamil nel 1219. Lo ricordo in questa sede per un dettaglio che riguarda il tema delle nostre meditazioni sul Dio vivente. Dopo il ritorno dal suo viaggio in Oriente, Francesco scrisse una lettera indirizzata “Ai Reggitori dei popoli”. In essa diceva tra l’altro:

Siete tenuti ad attribuire al Signore tanto onore fra il popolo a voi affidato, che ogni sera si annunci, mediante un banditore o qualche altro segno, che siano rese lodi e grazie all’onnipotente Signore Iddio da tutto il popolo. E se non farete questo, sappiate che dovrete renderne ragione a Dio davanti al Signore vostro Gesù Cristo nel giorno del giudizio (1. Fonti Francescane, nr. 213).

È opinione diffusa che il santo traesse lo spunto per questa esortazione da ciò che aveva osservato nel suo viaggio in Oriente, dove aveva ascoltato l’appello serale alla preghiera rivolto dai muezzin dall’alto dei minareti. Un bell’esempio non solo di dialogo tra le diverse religioni, ma anche di reciproco arricchimento. Una missionaria che ha lavora per molti anni in un paese africano ha scritto queste parole: “Noi siamo chiamati a rispondere a un bisogno fondamentale degli uomini, al bisogno profondo di Dio, alla sete di Assoluto, ad insegnare la strada di Dio, ad insegnare a pregare. Ecco perché, da queste parti, i musulmani fanno tanti proseliti: insegnano subito e in maniera semplice, ad adorare Dio”.

Noi cristiani abbiamo una diversa immagine di Dio – un Dio che è amore infinito, prima ancora che potenza infinita -, ma questo non deve farci dimenticare il dovere primario dell’adorazione. Alla provocazione della donna samaritana: “I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”, Gesù risponde con parole che sono la magna charta dell’adorazione cristiana:

Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità (Gv 4, 21-24).

È stato il Nuovo Testamento ad elevare la parola adorazione a questa dignità che prima non aveva. Nell’Antico Testamento, oltre che a Dio, l’adorazione è rivolta in alcuni casi anche a un angelo (cf. Num 22, 31) o al re (1Sam 24, 9); al contrario, nel Nuovo Testamento ogni volta che si tenta di adorare qualcuno all’infuori di Dio e della persona di Cristo, fosse pure un angelo, la reazione immediata è: “Non farlo! È Dio che si deve adorare”. Quasi che si corra, in caso contrario, un pericolo mortale. È quello che Gesù, nel deserto, ricorda perentoriamente al tentatore che gli chiedeva di adorarlo: “Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai, a lui solo renderai culto” (Mt 4, 10).

La Chiesa ha raccolto questo insegnamento, facendo dell’adorazione l’atto per eccellenza del culto di latria, distinto da quello detto di dulia riservato ai Santi e da quello detto di iperdulia riservato alla Santa Vergine. L’adorazione è dunque l’unico atto religioso che non si può offrire a nessun altro, nell’intero universo, neppure alla Madonna, ma solo a Dio. È qui la sua dignità e forza unica.

L’adorazione (proskunesis) all’inizio indicava il gesto materiale di prostrarsi faccia a terra davanti a qualcuno, in segno di riverenza e sottomissione. In questo senso plastico la parola è usata ancora nei Vangeli e nell’Apocalisse (2. Cf. Ap 19, 10; 22, 9; At 10, 25-26; 14, 13 s). In essi la persona davanti alla quale ci si prostra, sulla terra è Gesù Cristo e nella liturgia celeste l’Agnello immolato o l’Onnipotente. Solo nel dialogo con la Samaritana e in 1Cor 14, 25 esso appare sciolto ormai dal suo significato esterno e indica una disposizione interiore dell’anima verso Dio. Questo diventerà sempre più il significato ordinario del termine e in questo senso, nel credo, diciamo dello Spirito Santo che “adorato e glorificato” al pari del Padre e del Figlio.

Per indicare l’atteggiamento esteriore corrispondente all’adorazione, si preferisce il gesto di piegare le ginocchia, la genuflessione. Anche quest’ultimo gesto è riservato esclusivamente alla divinità. Possiamo stare in ginocchio davanti all’immagine della Madonna, ma non facciamo la genuflessione davanti a lei, come invece la facciamo davanti al Santissimo Sacramento o al Crocifisso.

Cosa significa adorare

Ma, più che il significato e lo sviluppo del termine, a noi interessa sapere in che consiste e come possiamo praticare l’adorazione. L’adorazione può essere preparata da lunga riflessione, ma termina con una intuizione e, come ogni intuizione, essa non dura a lungo. E’ come un lampo di luce nella notte. Ma di una luce speciale: non tanto la luce della verità, quanto la luce della realtà. E’ la percezione della grandezza, maestà, bellezza, e insieme della bontà di Dio e della sua presenza che toglie il respiro. E’ una specie di naufragio nell’oceano senza rive e senza fondo della maestà di Dio. Adorare, secondo l’espressione di santa Angela da Foligno ricordata una volta, significa “raccogliersi in unità e immergersi nell’abisso infinito di Dio”.

Un’espressione di adorazione, più efficace di qualsiasi parola, è il silenzio. Esso infatti dice da solo che la realtà è troppo al di là di ogni parola. Alta risuona nella Bibbia l’intimazione: “Taccia davanti a lui tutta la terra!” (Ab 2, 20) e: “Silenzio alla presenza del Signore Dio!” (Sof 1, 7). Quando “i sensi sono avvolti da uno sconfinato silenzio e con l’aiuto del silenzio invecchiano le memorie”, diceva un Padre del deserto, allora non resta che adorare.
Fu un gesto di adorazione quello di Giobbe, quando, venutosi a trovare a tu per tu con l’Onnipotente alla fine della sua vicenda, esclama: “Ecco, son ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca” (Gb 40,4). In questo senso, il versetto di un salmo, ripreso poi dalla liturgia, nel testo ebraico diceva: “Per te è lode il silenzio”, Tibi silentium laus! (cf. Sal 65, 2, testo Masoretico). Adorare – secondo la stupenda espressione di san Gregorio Nazianzeno – significa elevare a Dio un “inno di silenzio” (3. S. Gregorio Nazianzeno, Carmi, 29 [PG 37, 507]). Come a mano a mano che si sale in alta montagna l’aria si fa più rarefatta, così a mano a mano che ci si avvicina a Dio la parola deve farsi più breve, fino a diventare, alla fine, completamente muta e unirsi in silenzio a colui che è l’ineffabile (4. Ps.- Dionigi Areopagita, Teologia mistica, 3 [PG 3, 1033]).

Se proprio si vuol dire qualcosa per “fermare” la mente e impedirle di vagabondare su altri oggetti, conviene farlo con la parola più breve che esista: Amen, Sì. Adorare infatti è acconsentire. È lasciare che Dio sia Dio. E’ dire sì a Dio come Dio e a se stessi come creature di Dio. In questo senso Gesù è definito nell’Apocalisse, l’Amen, il Si fatto persona (cf Ap 3,14), oppure ripetere incessantemente con i Serafini: “Qadosh, qadosh, qadosh: Santo! Santo! Santo!

L’adorazione esige dunque che ci si pieghi e che si taccia. Ma è, un tale atto, degno dell’uomo? Non lo umilia, derogando alla sua dignità? Anzi, è esso veramente degno di Dio? Che Dio è se ha bisogno che le sue creature si prostrino a terra davanti a lui e tacciano? E’ forse, Dio, come uno di quei sovrani orientali che inventarono per sé l’adorazione? E’ inutile negarlo, l’adorazione comporta per le creature anche un aspetto di radicale umiliazione, un farsi piccoli, un arrendersi e sottomettersi. L’adorazione comporta sempre un aspetto di sacrificio, un immolare qualcosa. Proprio così essa attesta che Dio è Dio e che niente e nessuno ha diritto di esistere davanti a lui, se non in grazia di lui. Con l’adorazione si immola e si sacrifica il proprio io, la propria gloria, la propria autosufficienza. Ma questa è una gloria falsa e inconsistente, ed è una liberazione per l’uomo disfarsene.

Adorando, si “libera la verità che era prigioniera dell’ingiustizia”. Si diventa “autentici” nel senso più profondo della parola. Nell’adorazione si anticipa già il ritorno di tutte le cose a Dio. Ci si abbandona al senso e al flusso dell’essere. Come l’acqua trova la sua pace nello scorrere verso il mare e l’uccello la sua gioia nel seguire il corso del vento, così l’adoratore nell’adorare. Adorare Dio non è dunque tanto un dovere, un obbligo, quanto un privilegio, anzi un bisogno. L’uomo ha bisogno di qualcosa di maestoso da amare e da adorare! È fatto per questo.

Non è dunque Dio che ha bisogno di essere adorato, ma l’uomo di adorare. Un prefazio della Messa dice: “Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva, per Cristo nostro Signore” (5. Messale Romano, IV Prefazio comune). Era completamente fuori strada F. Nietzsche quando definiva il Dio della Bibbia “quell’Orientale avido di onori nella sua sede celeste” (6. Friederich Nietzsche, La Gaia scienza, nr. 135).

L’adorazione deve però essere libera. Ciò che rende l’adorazione degna di Dio e insieme degna dell’uomo è la libertà, intesa, questa, non solo negativamente come assenza di costrizione, ma anche positivamente come slancio gioioso, dono spontaneo della creatura che esprime così la sua gioia di non essere lui stesso Dio, per poter avere un Dio sopra di sé da adorare, ammirare, celebrare.

L’adorazione eucaristica

La Chiesa cattolica conosce una forma particolare di adorazione che è l’adorazione eucaristica. Ogni grande corrente spirituale, in seno al cristianesimo, ha avuto il suo particolare carisma che costituisce il suo contributo particolare alla ricchezza di tutta la Chiesa. Per i protestanti, questo è il culto della parola di Dio; per gli ortodossi, il culto delle icone; per la Chiesa cattolica, esso è il culto eucaristico. Attraverso ognuna di queste tre vie, si realizza lo stesso scopo di fondo, che è la contemplazione di Cristo e del suo mistero.
Il culto e l’adorazione dell’Eucaristia fuori della Messa è un frutto relativamente recente della pietà cristiana. Cominciò a svilupparsi, in Occidente, a partire dall’XI secolo, come reazione all’eresia di Berengario di Tours che negava la presenza “reale” e ammetteva una presenza soltanto simbolica di Gesù nell’Eucaristia. A partire da quella data, però, non c’è stato, si può dire, un santo, nella cui vita non si noti un influsso determinante della pietà eucaristica. Essa è stata fonte di immense energie spirituali, una specie di focolare sempre acceso in mezzo alla casa di Dio, al quale si sono riscaldati tutti i grandi figli della Chiesa. Generazioni e generazioni di fedeli cattolici hanno avvertito il fremito della presenza di Dio cantando l’inno Adoro te devote, davanti al Santissimo esposto.

Quello che dirò dell’adorazione e della contemplazione eucaristica si applica quasi per intero anche alla contemplazione dell’icona di Cristo. La differenza è che nel primo caso si ha una presenza reale di Cristo, nel secondo una presenza solo intenzionale. Entrambe si fondano sulla certezza che il Cristo risorto è vivo e si fa presente nei segni sacramentali e nella fede.
Stando calmi e silenziosi, e possibilmente a lungo, davanti a Gesù sacramentato, o a una sua icona, si percepiscono i suoi desideri a nostro riguardo, si depongono i propri progetti per fare posto a quelli di Cristo, la luce di Dio penetra, a poco a poco, nel cuore e lo risana. Avviene qualcosa che richiama ciò che avviene sugli alberi in primavera, e cioè il processo della fotosintesi. Spuntano dai rami le foglie verdi; queste assorbono dall’atmosfera certi elementi che, sotto l’azione della luce solare, vengono “fissati” e trasformati in nutrimento della pianta. Senza tali foglioline verdi, la pianta non potrebbe crescere e portare frutti e non contribuirebbe a rigenerare l’ossigeno che noi stessi respiriamo.

Noi dobbiamo essere come quelle foglie verdi! Esse sono un simbolo delle anime eucaristiche e delle anime contemplative. Contemplando il “sole di giustizia” che è Cristo, esse “fissano” il nutrimento che è lo Spirito Santo, a beneficio di tutto il grande albero che è la Chiesa. In altre parole, è ciò che dice anche l’apostolo Paolo quando scrive: “Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Cor 3, 18).
Un nostro poeta, Giuseppe Ungaretti, contemplando un mattino in riva al mare il sorgere del sole, ha scritto una poesia di due soli brevissimi versi, tre parole in tutto: “Mi illumino d’immenso” (7. Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo: 106 poesie, Milano, Mondadori 1988, p. 72). Sono parole che potrebbero essere fatte proprie da chi sta in adorazione davanti al Santissimo Sacramento. Dio solo conosce quante grazie nascoste sono scese sulla Chiesa grazie a queste anime adoratrici.

L’adorazione eucaristica è anche una forma di evangelizzazione e tra le più efficaci. Molte parrocchie e comunità che l’hanno messa nel loro orario quotidiano o settimanale ne fanno l’esperienza diretta. La vista di persone che di sera o di notte sono in adorazione silenziosa davanti al Santissimo in una Chiesa illuminata ha spinto molti passanti di entrare e dopo aver sostato un momento a esclamare: “Qui c’è Dio!”. Proprio come sta scritto che avveniva nelle prime assemblee dei cristiani (cf. 1Cor 14, 25).

La contemplazione cristiana non è mai a senso unico. Non consiste nel guardarsi, come si dice, l’ombelico, alla ricerca del proprio io profondo. Essa consiste sempre in due sguardi che si incrociano. Faceva perciò ottima contemplazione eucaristica quel contadino della parrocchia di Ars che, interrogato dal Santo Curato cosa facesse in tutte le sue visite alla chiesa, rispose: “Niente, io lo guardo e lui mi guarda!”.

Se a volte si abbassa e viene meno il nostro sguardo, non viene mai meno, però, quello di Dio. La contemplazione eucaristica si riduce, talvolta, semplicemente a tenere compagnia a Gesù, a stare sotto il suo sguardo, donando anche a lui la gioia di contemplare noi, che, per quanto creature da nulla e peccatrici, siamo però il frutto della sua passione, coloro per i quali egli ha dato la vita. È un accogliere l’invito rivolto da Gesú ai discepoli nel Getsemani: “Rimante qui e vegliate con me” (Mt 26, 38).

La contemplazione eucaristica non è dunque impedita, per sé, dall’aridità che a volte si può sperimentare, sia essa dovuta alla nostra dissipazione, sia invece permessa da Dio per la nostra purificazione. Basta dare a essa un senso, rinunciando anche alla nostra soddisfazione derivante dal fervore, per far felice lui e dire, come diceva Charles de Foucauld: “La tua felicità, Gesù, mi basta!”; cioè: mi basta che sia felice tu. Gesù ha a disposizione l’eternità per far felici noi; noi non abbiamo che questo breve spazio del tempo per far felice lui: come rassegnarsi a perdere questa occasione che non tornerà mai più in eterno?

Contemplando Gesù nel Sacramento dell’altare, noi realizziamo la profezia fatta al momento della morte di Gesù sulla croce: “Guarderanno a colui che hanno trafitto” (Gv 19, 37). Anzi, tale contemplazione è essa stessa una profezia, perché anticipa ciò che faremo per sempre nella Gerusalemme celeste. È l’attività più escatologica e profetica che si possa compiere nella Chiesa. Alla fine non si immolerà più l’Agnello, né si mangeranno più le sue carni. Cesseranno, cioè, la consacrazione e la comunione; ma non cesserà la contemplazione dell’Agnello immolato per noi. Questo infatti è ciò che i santi fanno nel cielo (cf. Ap 5, 1 ss). Quando siamo davanti al tabernacolo, noi formiamo già un unico coro con la Chiesa di lassù: essi davanti, noi, per così dire, dietro l’altare; essi nella visione, noi nella fede.
Nel 1967 ebbe inizio il Rinnovamento Carismatico Cattolico che in cinquant’anni ha toccato e rinnovato milioni di credenti e suscitato nella Chiesa innumerevoli realtà nuove, personali e comunitarie. Non si insiste mai abbastanza sul fatto che esso non è un movimento ecclesiale, nel senso comune di questo termine; è una corrente di grazia destinata a tutta la Chiesa, una “iniezione di Spirito Santo” di cui essa ha disperatamente bisogno. È come una scossa elettrica destinata a scaricarsi sulla massa che è la Chiesa e, una volta avvenuto questo, scomparire.

Se ne parlo in questo momento è perché tale realtà iniziò proprio con una straordinaria esperienza di adorazione del Dio vivente, che è stato il tema di questa nostra meditazione. Il gruppo di studenti dell’Università Duquesne di Pittsburgh che partecipò al primo ritiro carismatico cattolico, si ritrovò, una sera, in cappella davanti al Santissimo, quando, ad un tratto, avvenne una cosa singolare, che una dei presenti, in seguito, descrisse così:

“Timore del Signore prese a scorrere in mezzo a noi; una specie di terrore sacro ci impediva di sollevare gli occhi. Egli era lì personalmente presente e noi avevamo paura di non reggere al suo eccessivo amore. Lo adorammo, scoprendo per la prima volta che cosa significa adorare. Facemmo un’esperienza bruciante della terribile realtà e presenza del Signore. Da allora abbiamo capito con una chiarezza nuova e diretta le immagini di Jahvè che, sul monte Sinai, tuona ed esplode con il fuoco del suo stesso essere; abbiamo capito l’esperienza di Isaia e l’affermazione secondo cui il nostro Dio è un fuoco divorante. Questo sacro timore era, in qualche modo, la stessa cosa che amore, o almeno così era avvertito da noi. Era qualcosa di sommamente amabile e bello, anche se nessuno di noi vide alcuna immagine sensibile. Era come se la realtà personale di Dio, splendida e abbagliante, fosse venuta nella stanza riempiendo insieme essa e noi” (8. In Patti Gallagher Mansfield, As by a New Pentecost. Beginning of the Catholic Charismatic Renewal, Amor Deus Publishing, Phoenix, AZ, 2016, p. 131).

Simultanea presenza di maestà e di bontà in Dio, di timore e amore nella creatura; il “mistero tremendo e affascinante”, come lo definiscono gli studiosi delle religioni. La persona che ha descritto in questi termini l’esperienza di quel momento non sapeva che stava facendo una sintesi perfetta dei tratti che caratterizzano il Dio vivente della Bibbia.

Terminiamo con un versetto del Salmo 94 con cui la Liturgia delle Ore, nell’Invitatorio, ci fa iniziare ogni nuova giornata:

“Venite, prostrati adoriamo,

in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati.

Egli è il nostro Dio, e noi il popolo del suo pascolo,

il gregge che egli conduce”.